venerdì 6 febbraio 2015

Sul fiume con Ranxerox

di Giancarlo Castelli




Eravamo nel tempo di mezzo e come spesso accade quando un periodo finisce e uno comincia, non ci capivamo nulla. Entravamo frikkettoni e ribelli al Festival dei poeti di Castelporziano e uscivamo punk all'Uonna club, quello dove i Lizard King si menavano prima con le bande rivali e poi, una volta sbaragliate tutte quelle, cominciavano tra di loro. “Uno sguardo estetico è dire poco”, sentenziò il Gogò al baretto vicino alle scuole bianche che bianche non erano mai state e anzi erano ricoperte da un vivido color vomito peraltro pure scrostato ma sotto niente bianco a sottolineare che quella era una leggenda (del resto anche il bar della Lesbica era meta continua per la curiosità di cogliere un gesto che giustificasse almeno quell'insolito comportamento ma nessuno trovò mai soddisfazione neppure al più vago sospetto. Nemmeno oggi). “In che senso? “, chiese un po' allarmato Augustarello . “Nel senso che è finita l'epoca delle passioni popolari del dopoguerra e stiamo passando in maniera un po' acerba in un'era un po' più adulta”, rispose il Gogò che aveva il soprannome del soprannome nel senso che lui si chiamava Gomez (di soprannome) e gli amici gli avevano fatto il diminutivo. C'era l'Estate romana di un assessore giovane e spesso col cappello sulle ventitrè che si chiamava Renato Nicolini e i giovani, i vecchi e chiunque andavano spesso a vedere i film al centro, all'aperto e aggratis.

Di qua la saga di Franco e Ciccio, di là il Napoleon di Abel Gance: solo l'imbarazzo della scelta. Il futuro era rappresentato dai monitor televisivi a nido d'ape disseminati come quadri in queste nuove arene dell'incognito: Massenzio, Colosseo, Eur, Villa Ada. Come se non bastasse , nuove suggestioni musicali piovevano a cascata. Il punk aveva rimescolato tutto e quindi quelli degli anni '80 suonavano gli anni '60 e quelli degli anni '60 suonavano gli anni '80 (i '70 erano aboliti, tornarono anni dopo). Spunti di futuro erano visibili sulle riviste e su Frigidaire, quello di Pazienza, Tamburini, Scòzzari, Red Vinyle, quello che stroncava gli album un attimo dopo la pubblicazione. E poi, fashion e Vogue-teppista, antropologia delle Brigate rosse, elogio della sofferenza e del piacere. “Andiamo a Massenzio?”, propose Bambacione. “Che c'è stasera?”. “Non lo so. Devo mette benzina”. Self service. Sto per mettere la banconota. Una figura esce dal buio (era sera): “Aspetta aspetta!”. “Perché?”. Prende e apre la cassa del self service e tira fuori una mazzetta da 10mila lire. “Non volevo fregare pure i tua”. “Ah”. Se ne va. Mettiamo i soldi nella fessura. Facciamo il pieno. Riapriamo la cassa e riprendiamo i soldi. “Andiamo a Massenzio?”. “Ci andiamo dopo”.

E poi venne il Tevere. La prima volta lo vidi in un fumetto di Ranxerox, quello di Tamburini e Liberatore. “Ponte Garibaldi, ore 20.30: a quest’ora l’aria è così densa di monossido di carbonio da poter quasi udire nei polmoni della gente il fruscio delle cellule cancerose che proliferano allegramente come spermatozoi nei testicoli di un ragazzo in buona salute” . Nelle sue acque vicino all'Isola Tiberina galleggiavano pezzi di automobili, rottami e scarti delle città. Persino il relitto di un elicottero sotto Ponte Sisto. Del resto, in una città ormai stratificata a livelli, il Tevere inevitabilmente occupava quello più basso. E i livelli più alti, dove si passeggiava ignari e decadenti e col fashion a posto, erano fatti proprio in modo che non solo quei gradi dell'esistenza non si toccassero ma nemmeno si potessero vedere.

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