venerdì 6 febbraio 2015

5 Febbraio 2015, Barcaroli controcorrente: omaggio al Tevere


A seguire pubblichiamo tutti  i racconti degli autori che hanno partecipato alla serata che l'associazione Dasteros e il Biondo Tevere hanno dedicato ai Barcaroli controcorrente. Un evento che prende spunto dalle immagini dei fotografi Alberto Urbinati e Simone Crescenzo che per un anno hanno monitorato, dragato, attraversato le rive e le acque del fiume di Roma durante l'edizione 2013-2014 del laboratorio avanzato di reportage con Fausto Podavini. 



La parata di Gigi

di Daniela Amenta

Gigi nacque il primo aprile del 1960 al quinto piano del palazzo più alto di viale Marconi, quello che guardava alla Basilica di San Paolo che d'estate al tramonto era tutto un bagliore d'oro e pareva che i santi sul frontespizio della chiesa t'entrassero in casa tanto erano profonde le ombre. Nacque e fu una gran festa, figlio der sor Tommaso Paraggi, tassinaro, ex primo tacco della Sala Pichetti e di sora Gina che sapeva cucì anche gli abiti da sposa con la Singer, bella mora che la gente se voltava a fischià quando passava strizzata nella camicetta de jersey. Nel palazzo fu attaccato il fiocco azzurro e si fece festa nell'androne con tanto di liquore Strega e ciambellone. L'ascensore ancora non ci stava e quel giorno, il giorno degli scherzi, fu un andirivieni su e giù per le scale, fino al quinto piano. Chi portava calzini, chi sciarpette, chi tutine di spugna. Qualcuno per regalo portò un pallone bello, di cuoio, arancione come un'aragosta. Er sor Tommaso si riprese dall'emozione solo a sera, quando il sole calò su San Paolo e l'aria divenne dolce come zucchero filato anche tra gli ingranaggi d'acciaio del Gazometro.
“Sei padre, Tomma', mo' tocca sgobba' er doppio”, si ripeteva. A viale Marconi, l'unico quartiere senza nome di Roma e forse del mondo, passavano ancora poche auto in quegli anni di boom. Un reticolo di vie dedicate a scienziati e inventori e il Tevere a lambire strade ancora sconnesse che calavano ripide verso gli argini selvaggi di canne, malva e platani maestosi con le radici piantate nell'acqua e nella fanga.

Era piccolo Gigi, un pupetto, con degli occhi azzurri inspiegabili, che mamma e papà  erano scuri de pelle e de capelli. Piccolo come un cucciolo di un animale strano. Ma Gina c'aveva latte ed energia e sarebbe diventato grande,  avrebbe preso a calci il pallone e la vita. Grosso  e bello come il portiere Bob Lovati se lo immaginava Tommaso guardandolo dormire tranquillo nella culla, un colosso sarebbe stato che parava tutto, ma tutto, anche i dolori.
E invece Gigi Paraggi non crebbe mai. La sentenza arrivò un anno dopo, ospedale Bambino Gesù. Mamma e papà arrivarono al Gianicolo un'ora prima della visita col medico, raccomandati dall'assessore Gastaldi che ogni tanto Tommaso scorazzava sul taxi come autista privato. Si fermarono a guardare lo spettacolo di marionette, Tommaso comprò un cartoccio de fusaje ma Gina non ne toccò manco mezza. Erano tutte e due tristissimi con Gigi  silenzioso nella carrozzina a guardare incantato il cielo azzurro, slavato come i suoi occhi e il volo radente dei gabbiani. E mentre Pulcinella prendeva a bastonate il diavolo, Gina iniziò a piangere piano, senza un singhiozzo.
“Che c'avrà 'sto figlio, Tomma'? Che male abbiamo fatto? Ma che è colpa mia?”
“Ma che stai a di', non c'ha gnente. Niente, n'è gnente. Vedrai che ce danno le punture di calcio e tempo sei mesi cresce in un botto. Questo – e indicò il figlio col vestitino buono e la copertina ricamata – ce diventa un gigante come il portiere Lovati. Vedrai, vedrai amore mio”.


A viale Marconi o diventavi coatto, o soccombevi. Prendevi sganassoni che levate anche perché la peggio gioventù stava là. Quelli della Magliana ce stavano, e certi fasci torvi e incazzati, pippati, pronti a tutto. Mannaggia a loro. Grossi e 'nfami, appostati al bar Supplizi, che era un covo de casino, e se non ti sapevi difendere te la vedevi brutta.

L'idolo nostro fu quindi Gigi Paraggi che era un nano, alto come noi regazzini. Gigi non era propriamente nano, aveva una malattia che si chiama osteogenesi imperfetta e che gli rendeva le ossa piccole e fragili, e gli occhi di un indaco nebbioso. Poi si scoprì che anche un re importante stava come Gigi nostro, e il jazzista  francese Petrucciani, l'uomo che faceva ridere il pianoforte e impazzire le donne, l'artista che suonava tutta la fretta del mondo perché non c'aveva tempo da perde. Anche Gigi si meritava dischi di diamante fuso all'antracite e fiori di pesco di giardini. Meritava cose bellissime, insomma. Mortaretti de stelle.

Invece Gigi nacque a viale Marconi. E a viale Marconi ce stavamo noi, solo noi, co' le bolle in faccia, le magliette strette strette alla moda de Raffaella Carrà e sta puzza de Tevere a levacce er sonno. Meno male che c'era lui con noi,  a riconoscere le bestie di fiume, i punti più pericolosi dell'argine, a indicarci i sentieri tra le canne.  Era intelligentissimo Gigi nostro. Essere superiore nonostante la statura minuscola. Una lingua da crotalo. Sveglio, cazzuto. cattivo ma equo. E nessuno si permetteva de pijallo in giro quando passeggiava nel quartiere senza nome con un pallone color aragosta, grande quasi come lui. 

Il sogno di Gigi era di poter giocare nel derby calcistico Marconi-Ostiense. Giocare  in porta. Ma questo, nonostante venisse rispettato pure dalla banda del bar Supplizi, non gli fu mai consentito. Cosicché Gigi si inventò la squadra sua, che poi fu la nostra. e ci schierò a noialtri regazzini nell'epocale sfida che si svolse nella marana teverina, precisamente al campetto infernale Lungotevere di Pietra Papa, all'epoca un posto tanto lercio e zozzo che anche gli zingari erano scappati dopo l'incendio di una roulotte e la morte di un bambino come noi, Muhamed si chiamava, ancora me lo ricordo.

E in questo scenario di guerra giocammo, con l'umido del Tevere fin dentro gli scarpini. Il match dei match si disputò in notturna, con il contributo di quattro Fiat e un par de motorini che ci spararono addosso le luci dei fari per illuminare il rettangolo di giuoco.

Eravamo un 4-4-2 classico, detti la squadra der nano, tutti nani, anni compresi tra 11 e 13, vestiti di rosso perché Gigi disse: "dovemo sembrà diavoli e marziani, esseri imprendibili e un po' malvagi, e sfonnalli psicologicamente". In porta il nostro Lev Jashin coi guanti di lana acquistati all'Upim che "la lana trattiene la sfera di cuoio che se incolla ar tessuto".

Contro avevamo il Real San Paolo, che s'allenava in basilica. Gente di 17 anni e più. Finì con un pareggio, e quindi vittoria per noi, e trionfo per Gigi Paraggi l'immenso che parò un corner radente e infido. La sua prima, ultima parata. Gigi se ne morì come avevano detto i dottori, che non sarebbe mai arrivato ai 30anni. Ne aveva 29 il giorno della partita. Ne uscì come un eroe e a quelli del bar Supplizi glielo disse chiaro. Disse: "d'ora in poi a tre palmi dal culo de 'sti regazzini, sennò ve faccio magna' er core”. E quelli zitti.

Nella chiesa Santi Cosma e Damiano, che non era una chiesa ma un garage, partecipammo tutti al funerale. Andammo a baciare Tommaso che s'era fatto vecchio per il mal di cuore e sora Gina che era diventata secca secca, quasi come il figlio, e sembrava venire dalla luna, oramai.

Don Angelo ci permise di fare la messa beat. Cantammo per lui, il nostro amato Gigi, la canzone “Il testamento di Tito” con Don Angelo che s'attappava le orecchie per via del testo molto audace. Sulla bara coi fiori, sistemammo i guantoni e un pallone a scacchi bianchi e neri, che quelli arancioni non andavano più di moda.
Fu il mio primo amichetto morto, il più piccolo e il più grande. Che è morto, però, lo capisco solo oggi. Che c'è un cielo d'indaco nebbioso.

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