venerdì 6 febbraio 2015

Dei nati sui fiumi di serie B


di Massimo Bernardi



Qui dietro scorre verso il mare il celebre fiume Tevere, il fiume sul quale è nata Roma. Roma. Che è anche la mia città, anche se spesso mi ha trattato come un cittadino di serie zeta, come un figliastro di madre non molto nota. A volte mi ha fatto sentire parto di una posto qualsiasi, un inferno qualsiasi, un paradiso malposto qualsiasi ... ma non figlio apprezzato di quella che dovrebbe essere la mia città. Ed il Tevere, in realtà, non mi ha mai adottato, se non svogliatamente carezzato, qualche volta, come si fa ad un cane che si avvicina scodinzolando ma al quale, fondamentalmente non tieni più di tanto. Perché si, è vero, io sono nato sul fiume. Ho vissuto accanto al fiume la maggior parte dei miei anni. Tuttora lo guardo, quando torno verso la casa di mio padre, a volte immaginando ed ogni tanto ricordando cose. Lo vedo, sporco come sempre, stretto, infame. Sul fiume ho vissuto i miei primi anni di paura ed allegria. Di preoccupazione ... come quando mia madre mi faceva correre giù dalle scale per arrivare trafelato dietro l'esile figura di mia nonna Marcella, che abbracciavo frenando d'improvviso la mia corsa ed il mio impeto per non farla preoccupare. E lei, che per un secondo si impauriva di quei passi affrettati dietro di lei poi mi riconosceva, si scioglieva in un sorriso dolcissimo e mi circondava con le sue mani, troppo grosse per una donna così piccola,mani che finivano in braccia piene di vene a vista, come quelle dei cavalli. “Che fai qua,amore mio? So' 'scita adesso da casa de mamma tua ….” “Niente nò, te volevo solo salutà!” “Ma che nse semo salutati tesoretto mio?” E mentre mi baciava la fronte da 7enne io, senza che se ne accorgesse, la facevo volgere di novanta gradi dalla direzione intrapresa e la spingevo delicatamente a camminare verso il sentiero di terra che si allungava su, in leggera salita, sino alla via Tiburtina. E mi parlava gentilmente di cose di cui non ricordo neanche una parola, stringendo il rosario della Madonna, mentre io mi voltavo verso mia madre che oramai lontana, dalla finestra, strillava e mi faceva gesti con le mani che chiedevano, a me, di non allontanarmi troppo e, per lei, di lasciarla andare, una volta che fosse giunta sulla via principale. La voce ed il carattere di mia madre erano noti in tutto il quartiere. Mi verrebbe quasi da dire in tutto il quadrante est della capitale. Me la ricordo ancora quella voce altissima e quegli occhi verdi pieni di ironia e sarcasmo. E tutti che guardavano, dalle altre finestre e la blandivano per non farsela nemica “Hai fatto bene, Natalì, te stavo pe' chiamà pe' ditte ce stava annà verso er fiume” “Nte proccupà, ce pensano i mii fiji “ Che fondamentalmente equivaleva ad un meno diretto “Fatti i cazzi tuoi” Si, perchè nonna, nata nel 1900, tenue, mingherlina, devota e perennemente preoccupata, mentre scendeva dalle scale del bizzarro palazzone della Solvay ove abitavo accanto al fiume, tendeva oramai sempre ad indirizzarsi verso di lui, invece di tenere barra a dritta verso la via Tiburtina, dove “l'auto” (il bus) 163 l'avrebbe ricondotta a casa. Sarebbe morta di lì a poco, smemorata ed incapace di rendersi conto anche degli affetti che aveva intorno. Proprio come in quei giorni in cui, china, sguardo verso il basso camminava adagio ma decisa verso il fiume e mia madre pronta ad impartire ordini ai suoi figli di andarla a recuperare e ad accompagnarla verso la strada di casa. Si, perchè non c'era neanche l'argine sul fiume, l'incubo di tutte le mamme che avevano i figli piccoli a giocare per la strada, troppo attirati da quella massa d'acqua minacciosa, lenta, fredda, sporca ma anche tanto promettente di tanto possibile divertimento e brivido tipico dell'infanzia matta della periferia di ogni città. Me lo ricordo ancora mio padre nei giorni di pioggia continua : “E' scito fori fiume!” Dalla finestra lo stretto alveo vomitava ondate di acqua marrone che si andavano a spargere sui campi intorno, per arrivare a pochi metri dal palazzo di edilizia superpopolare dove abitavamo, coi vigili del fuoco ed i padri di famiglia a pochi metri dall'acqua, preoccupati, pronti a prendere figli e moglie ed a scappare verso i parenti disseminati da qualche parte nella banlieu romana di case abusive della zona est.

Perché è vero, io sono nato sul fiume ma quel fiume non è il Tevere.
Quello, per noi nati sull' Aniene, era più che altro un nome sui libri di geografia e le ciarle di adulti. Era un cugino tronfio e chiacchierone, era il coatto di un'altra borgata che veniva a fare, ogni tanto, il padrone a casa tua. Non voglio dire fosse antipatico, il Tevere. Ma il problema per noi era di sentirsi sempre dei cittadini di serie B anche per colpa sua. Come per tutti quelli nati sugli affluenti dei fiumi principali, che osservano i giganti prendersi sempre la scena e vedersi restituite solo poche foto nelle quali tu sei all'angolo estremo dell'inquadratura, magari con un gomito o la spalla di qualcuno che copre parzialmente il tuo volto e nessuno che chiederà ma di sapere tu chi cazzo sei. Nessuno si ricorda il nome degli affluenti del Danubio, del Po. Nessuno pensa che gli abitanti del Sesia o dello Stura siano degni di un qualche interesse. Fiumi di serie B, gente di serie B. Ecco perché ogni tanto, nonostante io abbia superato abbondantemente la maggior parte del tempo della mia vita, l'aver vissuto una vita intera in questa città non mi ha fatto sentire particolarmente figlio di questa città e di quel fiume tanto decantato e maledetto, come dice il barcarolo.

Un fiume che mi ha guardato indifferente ogni volta che io mi sono chinato sui suoi bordi per sentirlo meglio da vicino e capire quanto di me era possibile rintracciare sulle sue acque placide e dure come certi sguardi di romani stronzi. Ed era inutile ricordargli di mia madre trasteverina ... un fiume che ha visto troppa gente nella sua vita, un fiume che si è girato dall'altra parte anche quando mi sporgevo verso di lui nella speranza mi cullasse nel pensiero che tutto sarebbe andato bene mentre attendevo la venuta al mondo di mio figlio Sebastian, proprio lì, sull'isola dei Fatebenefratelli. Eppure ne avevamo di storie da raccontare, noi nati in mezzo ai campi accanto al fiume dove le industrie chimiche della Tiburtina Valley interravano bidoni di vernici colorate e mortali, che noi dissotterravamo ed usavamo per giocare e dipingere ogni cosa, persino le cortecce dei pini che, chissà perchè, dopo un po' venivan tutte via, lasciando carne vegetale viva alla mercè degli elementi. Tra uno sfasciacarrozze a picco sul greto, cui rubare il ferro da andare a rivendere a ricettatori pezzi di merda, tenendo a bada cani ringhiosi ed una casa abbandonata a pochi metri dall'acqua dove portare la povera sventurata di turno che, in ogni borgata che si rispetti, insegna a giovani uomini cosa significa godere, in mezzo alla sporcizia ed ai resti secchi e polverosi dell'ultima inondazione, tirando bastonate a gruppetti di topi curiosi ed aggressivi che oramai avevano paura di niente.

Tra funerali di capifamiglia, tutti operai della stessa fabbrica, morti di tumore ed asma, tutti troppo giovani, che era persino divenuta una consuetudine giocare coi loro figli, nel giardinetto della chiesa, mentre tutti intorno piangevano. Cosa avrà pensato mio padre, in quel lungo periodo di decenni in cui è pian piano divenuto vecchio, poi vecchissimo, da solo, senza neanche la compagnia di uno solo che abbia condiviso con lui quei giorni di ricostruzione di una nazione fondata, più che sul lavoro, sullo sfruttamento senza ritegno di una natura violentata e di povera gente pronta a tutto pur di poter acchiappare uno stipendio e una speranza per un futuro un po' migliore , se non per loro, per i propri figli?

Cenando qui anni or sono, la prima volta, mi sono ricordato l'orgoglio di noi dimenticati figli dei fiumi di serie b, quando leggevamo delle nostre gesta sui libri di un tipo strano ed angoloso, del quale capivamo ancora troppo poco ma che poi influenzò parecchio il nostro futuro percorso di vita ... quando invece quello era già morto. Parlava proprio di noi. E se non fossimo stati sufficientemente contenti di leggerci nelle sue righe come fossimo una classe sociale eletta, piuttosto che i reietti del dopoguerra, trovavamo ancora maggiore orgoglio nel vedere impressi su libri di grande importanza per la letteratura italiana proprio i luoghi ove eravamo nati. Non solo Donna Olimpia, dunque, che all'epoca non sapevamo neanche dove fosse … ma anche Ponte Mammolo, Pietralata, il ponte, il fiume, le baracche, il carcere, Rebibbia. Le fabbriche. Interminabili partite di calcio e decine di palloni portati via dal fiume che se ne andava, indifferente, verso Montesacro.

E allora, forse, se unisco le mie memorie di bimbo e di adolescente all'idea, che ancor m'è cara, di quell'uomo venuto da lontano, che ha vissuto e respirato dove io ho vissuto e respirato, e che proprio in questo luogo ove siamo oggi ha segnato la sua ultima tappa in vita ed i suoi ultimi momenti da uomo libero, ecco forse in qualche modo sento di poter percepire il biondo Tevere di un calore forse, per me, inconsueto ed in qualche modo inaspettato. Come se la vita di un uomo che io non ho mai personalmente conosciuto, in qualche modo, mi avesse restituito, magari solo per un attimo, la dignità di figlio legittimo di una città alla quale sono legato indissolubilmente, non più figlio di un fiume di serie b, di una città fatta di marginali, di quella terra desolata e povera che , in realtà, è tuttora e nella quale sono nato, oramai quasi tutta una vita fa.



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